Preludio

Hawaii, 7 dicembre 1941, l’Europa è ormai da più di due anni in una guerra che ha già provocato milioni di morti e cambiato radicalmente la sua geografia. In Asia la situazione non è molto diversa: il Giappone è impantanato in un’invasione su larga scala della Cina e l’India coinvolta nel conflitto con il Terzo Reich. 

È in questo scenario che Chuichi Nagumo, comandante della Kido Butai, temibile formazione della marina imperiale giapponese composta da 6 portaerei per un totale di più di 450 aerei con a bordo i piloti migliori al mondo, sferra il suo attacco. Obiettivo: la flotta statunitense del Pacifico, ancorata a Pearl Harbor. 

Ma per comprendere le ragioni dell’attacco non è sufficiente conoscere il contesto storico, analizziamo dunque anche la storia del Giappone.

Bacino di ancoraggio di Pearl Harbor

Storia del Giappone di inizio ‘900

Sin dai suoi albori l’Impero del Sol Levante aveva ambizioni espansionistiche, dovute principalmente alla mancanza di materie prime adeguate per il mantenimento di un’industria pesante all’altezza delle economie maggiori dell’epoca e alla forte influenza dell’esercito e della marina imperiale nel governo (fino alla Prima Guerra Mondiale i primi ministri dovevano avere l’approvazione completa delle forze armate).

Tra il 1904 e il 1905 il Giappone entra in guerra per l’influenza sulla Manciuria (la regione più settentrionale della Cina) contro una Russia in grave crisi economica, con una flotta assolutamente inadeguata e sull’orlo della rivoluzione. I giapponesi vinsero il conflitto e da questo ottennero grandi vantaggi economici e grande prestigio.

Nel 1914 l’imperatore Meiji dichiara guerra alla Germania e le colonie tedesche in Cina e in Oceania vengono occupate dalle forze giapponesi. Quando si giunge alla pace di Versailles queste vengono annesse all’Impero. Sempre durante il Primo conflitto mondiale, approfittando della situazione in cui versava la Russia, in piena guerra civile, vengono inviati 70 mila uomini che occuparono una parte della Siberia che però dovettero abbandonare successivamente. Formalmente questi erano stati mandati in funzione antibolscevica, ma tutti possiamo facilmente immaginare il vero motivo per cui si pianificò quest’invasione.

Passano 20 anni, sale al trono un nuovo imperatore e si verificano nuovi cambiamenti e soprattutto nuove crisi, che portano, come spesso accade, un maggiore nazionalismo e la repressione delle fazioni socialiste e comuniste. Si instaura un governo fortemente militarista, sotto il quale l’esercito stazionato in Corea decide, senza l’approvazione dell’imperatore, di invadere la Manciuria, già pesantemente sotto l’influenza giapponese. Conquistata in pochi mesi viene organizzata come uno stato dittatoriale fantoccio controllato da autorità giapponesi, a cui verrà affiancato un secondo regime in territorio mongolo.

Nel 1937 il Giappone entra di nuovo in guerra con la Cina: si verifica un incidente organizzato da truppe giapponesi, iniziano delle schermaglie tra i due schieramenti che poi si svilupperanno in una vera e propria invasione su larga scala da cui si giungerà ad uno stallo che durerà fino al 1945. 

Tutti questi conflitti hanno molte caratteristiche in comune, ma a noi ne interessano soltanto due: la rapidità e la debolezza, temporanea o cronica, dell’obiettivo. Teneteli bene a mente, saranno la chiave per la strategia giapponese, e non solo, nella Seconda guerra mondiale.

Conquiste giapponesi alla viglia dell’attacco

I motivi reali dell’attacco

A causa della sua politica espansionista, venne posto un embargo sul Giappone da parte delle principali potenze mondiali, privandolo dell’importazione delle materie prime di cui aveva un disperato bisogno per il suo sforzo bellico. L’industria bellica giapponese era in crisi e la sua produzione era ridotta al limite. Gli industriali, l’esercito e la marina ,dunque, fecero molta pressione sul governo che, impregnato di teorie sulla superiorità della razza e gonfio d’orgoglio per le vittorie in Cina, convinse l’imperatore a dichiarare guerra a Regno Unito, Paesi Bassi e Stati Uniti, i quali possedevano numerose colonie in Oceania e Asia ricchissime di materie prime.

Il piano era semplice: indebolire la flotta americana, unica forza effettivamente pericolosa nell’area del Pacifico, prendere controllo dei territori desiderati sfruttando l’effetto sorpresa e sperare in un rapido trattato di pace viste le difficoltà logistiche sia per gli Inglesi sia per gli Americani di condurre una guerra così distante dai loro paesi. L’invasione sarebbe avvenuta in un brevissimo lasso di tempo, soprattutto grazie alla limitata presenza militare in Asia di Inghilterra e Olanda, impegnate nel conflitto in Europa. Rapidità e debolezza.

L’incursione aerea

L’attacco durò meno di sei ore. La prima ondata d’attacco, lanciata alle 06:15 era composta da 185 aerei e aveva come obiettivi principali gli aerei da caccia posti a difesa della base. Questo compito venne affidato ai 45 caccia di scorta, che si comportarono egregiamente, distruggendone la quasi totalità. Gli allarmi iniziarono a risuonare su tutta l’isola: alle 07:55 i primi ordigni colpirono le navi ancorate, prima tra tutte la USS Oklahoma, che dopo essere stata colpita da 4 siluri, affondò. Seconda perdita della mattina fu la USS Arizona, che venne colpita da diverse bombe, una delle quali causò l’esplosione del magazzino di prua, affondandola in pochi minuti. L’esplosione fu tanto violenta che spense gli incendi sulle navi adiacenti. Quasi la metà dei morti, 1127 per l’esattezza, avvennero in quest’esplosione. Pochi minuti dopo il carburante che fuoriusciva dal relitto dell’Arizona raggiunse la USS West Virginia che, già gravemente danneggiata da ben 7 siluri, prese fuoco e affondò.

Fino alle 08:50 gli aerei Giapponesi continuarono a colpire, ma oramai le postazioni antiaeree americane erano diventate operative e iniziarono ad abbattere i primi aerei. Fu in questo momento che iniziò la seconda ondata; 168 aerei decollati alle 07:00, si lanciarono contro la flotta americana, ma con minore efficacia della prima. Ciò non significa che i danni furono nulli, anzi: alle 09:50 la USS Nevada, che cercava di fuggire dal porto venne colpita numerose volte e affondata, bloccando dunque l’unica via di uscita dall’atollo. Alle 10:00 anche la USS California venne abbandonata per la criticità dei danni subiti; affonderà 3 giorni dopo. 

USS Arizona dopo l’esplosione

Le perdite

Le perdite americane furono ingenti: 5 corazzate affondate e 3 danneggiate, 2 cacciatorpediniere affondati e uno danneggiato, 3 incrociatori danneggiati, 188 aerei distrutti e 155 danneggiati, 2.403 morti e  1.247 feriti.

I giapponesi persero 29 aerei e 55 avieri. Inoltre dei 5 sommergibili “tascabili” inviati per effettuare una ricognizione 4 vennero affondati e 1 catturato.

Considerazioni complessive

Le perdite americane non furono però determinanti: innanzitutto le portaerei, che non erano presenti nel porto quel giorno, rimasero operative, creando non pochi problemi alla marina imperiale giapponese. Inoltre, gli stabilimenti per le riparazioni, le riserve di carburante e altre infrastrutture vennero appena sfiorate, rendendo dunque molto veloce la rimessa in sesto della flotta, operazione facilitata anche dal fatto che le navi affondate si adagiarono su un fondale poco profondo. Molte corazzate vennero dunque recuperate e messe di nuovo in servizio, altre smantellate e riciclate per produrre e riparare altre unità. Non venne toccata nemmeno la sezione sommergibili della base, che in seguito danneggiò l’economia giapponese a tal punto che si sarebbe potuto arrivare alla pace senza armi nucleari. Dunque, più che distruggere la flotta del Pacifico, l’attacco la immobilizzò per un periodo che non superò i 6 mesi.

Questo non toglie valore all’impresa: in questo periodo le forze giapponesi riuscirono ad impossessarsi di buona parte delle isole dell’Oceania, arrivando addirittura a minacciare l’Australia. 

Ma, come sappiamo, questo non fu sufficiente.

Diego Placidi