È questa la domanda che il capitano Achab porrà a tutti gli equipaggi di altri bastimenti che incontrerà durante la sua infinita caccia. Il capolavoro di Melville, pubblicato per la prima volta nel 1851, è considerato un anticipatore del modernismo, e lo si colloca all’interno dell’American renaissance. Il racconto ci è narrato da Ismaele, un marinaio che è pronto a imbarcarsi per il suo ultimo viaggio. Parte quindi con la Pequod, un “bastimento vecchio e inusitato (…) che si ornava delle ossa cesellate dei suoi Nemici”.

Il protagonista

Il capitano, Achab, è un uomo misterioso, la cui reputazione lo eleva a Dio, superiore agli uomini e a tutte le Religioni. Si mostrerà all’equipaggio solo al terzo giorno di navigazione dove rivelerà il vero obbiettivo di quella caccia, Moby Dick, la balena bianca che gli aveva mozzato la gamba. Guidato dalla sua sete di vendetta, il capitano porterà il suo equipaggio in un viaggio paranoico e inverosimile al disperato inseguimento di una rivalsa illusoria. Pur essendo il vero protagonista del romanzo, Achab appare solo sporadicamente e rimane chiuso nella sua cabina. Ma nonostante questa rara presenza Achab c’è, ne è cosciente l’equipaggio ma soprattutto il lettore. Il capitano rimane per gran parte del viaggio chiuso nella sua cabina, nella sua determinazione e tutti sulla nave sanno che sta pensando a Moby Dick e al momento della sua rivalsa. Questa sua assenza-presenza contribuirà a innalzarlo al di sopra della sua condizione umana, mettendolo quasi alla pari con la balena bianca.

La metafora dell’opera

Però Melville col viaggio della Pequod non ci sta proponendo solo un ricco romanzo di avventura, ma ci sta offrendo una parabola della vita umana, approfondendo i limiti della natura dell’uomo e la sua paura dell’ignoto. Infatti, trovo molto affascinante la figura di Moby Dick, che risulta essere un qualcosa di inafferrabile e sovrumano. L’interpretazione che voglio dare a questa caccia altro non è che la continua ricerca dell’uomo di una conoscenza superiore. Sto parlando dell’assoluto, dell’infinito, quella cosa che l’uomo insegue da sempre e che non è mai riuscito a raggiungere. Il messaggio di Melville risulta quindi chiaro; accettare la nostra condizione di limitatezza e di esseri finiti. Non dobbiamo avere l’arroganza di credere di poter controllare e governare la natura (peccato di cui ci siamo macchiati molto negli ultimi decenni) ponendoci a livello di divinità rispetto alle altre forme di vita. Accettiamoci  per quello che siamo, solo una minima parte di un equilibrio molto più grande di noi, prendiamo a consiglio Leopardi, che proprio nel suo “Infinito” ci dice: “Così tra questa Immensità ‘annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.”

Mattia Limardo