COP 15, vittoria o sconfitta?
Lunedi 19 Dicembre si è conclusa a Montreal, in Canada, la COP 15, la Conferenza delle Nazioni Unite sulla Biodiversità, presieduta in questa edizione dalla Cina. È stato ratificato un accordo incoraggiante, anche solo per il fatto che di accordo si stia parlando, definito dal segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, “patto di pace con la natura”.
Il punto principale raggiunto dall’accordo è stata la garanzia da parte dei Paesi firmatari (erano assenti gli Stati Uniti, che nonostante questo hanno assicurato tramite Joe Biden che si atterranno ai patti, e lo Stato del Vaticano) di proteggere e tutelare il 30% delle aree terrestri e marine, dichiarandole formalmente zone protette; inoltre è stato sancito l’impegno di attuare una rigenerazione sul 30% delle aree del nostro pianeta che sono state degradate e la cui biodiversità è stata distrutta dagli abusi e dalla pessima gestione delle attività umane.
Un successo, vero? C’è un piccolo dettaglio però che è bene evidenziare: non è stato indicato alcun organo che verifichi che questi accordi vengano rispettati, come d’altronde è avvenuto per ogni altro accordo dell’Onu riguardante l’ambiente. Questo fa perdere alla Conferenza gran parte della sua efficacia: se non c’è nessuno che controlla, come si fa ad accertare che tutti mantengano la parola data?
Gli indigeni si sono visti riconoscere il loro status di custodi della biodiversità e della terra, infatti, sebbene rappresentino solamente il 5% della popolazione mondiale conservano l’80% della biodiversità del pianeta. Il paradosso è che, come sostenuto e denunciato anche da Greenpeace, la Conferenza non è stata in grado di trovare le risorse necessarie a scongiurare che questi popoli si vedano giorno dopo giorno togliere il loro spazio vitale. Ci si impegna anche entro il 2030 “a ridurre di almeno la metà il rischio complessivo derivante dai pesticidi e dalle sostanze chimiche altamente pericolose” che hanno conseguenze dannose sia sull’uomo che sulla natura; tuttavia, questa dichiarazione risulta poco chiara nei suoi riscontri effettivi.
Il testo finale ha esortato le grandi aziende private a mettere in atto quelle azioni volte a preservare la biodiversità e l’esistenza dei vari ecosistemi terresti; rimane però un semplice consiglio, dal momento che la Conferenza non ha disposto nessuna linea guida obbligatoria. Su richiesta della Cina, il documento finale conferma l’impegno di aumentare gli investimenti per la biodiversità nei paesi in via di sviluppo a 20 miliardi di dollari annui entro il 2025 e ulteriori 30 miliardi entro il 2030.
L’Africa infelice
Questo accordo però non ha lasciato tutti contenti; la richiesta da parte dei Paesi del Sud del Mondo, in cambio dei loro sforzi, era stata infatti di 100 miliardi annui, il che avrebbe portato nelle loro casse entro il 2030 700 miliardi di dollari, ma è stata bocciata dalla Conferenza, che ha ritenuto sufficienti i 10 miliardi annui attuali. In particolare la Repubblica Democratica del Congo, il Camerun e l’Uganda si sono scagliati poi contro la Cina, che ha rifiutato di accettare la proposta di creazione di un nuovo fondo monetario ad hoc per gli investimenti sulla biodiversità, stabilendo di utilizzare l’attuale Fondo Monetario dell’Ambiente (la cui gestione è affidata all’Onu). La cosa che fa storcere il naso a chiunque è che il maggiore beneficiario di questo fondo è proprio lo Stato cinese.
Sicuramente, nonostante tutte le criticità espresse, questo è un accordo che fa ben sperare e che entusiasma tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro pianeta, tuttavia, ha messo in risalto, ancora una volta, la crisi di autorità e di efficienza dell’ON; oggi l’Organizzazione delle Nazioni Unite porta con sé un’immagine di desolante impotenza, a discapito di tutti gli esseri umani che continuano a coltivare la speranza.
Nicola Santacatterina
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