Brescia leonessa d’Italia: non soltanto a seguito delle sanguinose dieci giornate del marzo 1849, ma già molto prima, nel XVI secolo. Nel 1512 l’esercito francese entrò in città saccheggiando quel che riusciva e mietendo centinaia di vittime tra la popolazione. Dopo questo orribile episodio, Brescia non crollò, non finì di stupire: la mostra Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo allestita nel museo di Santa Giulia e che copre proprio gli anni 1512-1552 dimostra il contrario. È in questo periodo che assistiamo forse alla massima fioritura della città, dal punto di vista scientifico, musicale, culturale ed artistico. 

Le opere in mostra sono poche, meno di trenta, e raccontano tutto sommato una piccola parentesi della Storia; tuttavia sono di altissima qualità e molte in prestito da grandi raccolte estere (prima fra tutte il moresco Ritratto di Fortunato Martinengo della National Gallery di Londra). Data la poca quantità di dipinti, la visita risulta scorrevole e leggera, a partire dall’ingresso dove lungo un buio corridoio una voce ci aiuta ad inquadrare il momento storico trattato e, poco dopo, la stessa voce, stavolta in coro con altre, sdrammatizza l’atrocità del sacco francese recitando un’antica storiella dialettale -quasi una barzelletta- in cui la personificazione della città si lamenta dei propri affanni. Nelle sale, inoltre, accanto ai quadri sono stati posizionati degli oggetti d’epoca che condiscono e legano le diverse opere. Troverete un’armatura e, tre metri più avanti, ecco la stessa che riappare ritratta in una pala d’altare di Paride Bordone, poi dei libri, dei trattati scientifici (per esempio di Nicolò Tartaglia, grande matematico bresciano, il primo che riuscì a risolvere equazioni di quarto grado), un bellissimo piatto in maiolica con Apollo e Marsia, arazzi, un proto-violino che pare intagliato l’altro ieri accanto a un piccolo clavicembalo.

Ma i protagonisti sono i tre grandi maestri della pittura lombarda. Girolamo da Romano, detto il Romanino, è forse il più originale e il mio preferito, per l’enigmaticità dei suoi volti un po’ alla Giorgione (dal quale si ispira, e a tal proposito è esposto un disegno del bresciano che copia un’opera del veneto) e la libertà della pennellata.

Girolamo da Romano, detto Romanino, ritratto di gentiluomo, 1530 ca.

Giovanni Girolamo Savoldo è sicuramente quello della triade che ha avuto più successo: riconoscibili lontano un miglio sono i suoi abiti drappeggianti con un numero eccessivo di pieghe, gli occhi gonfi di emozioni e l’inserimento in uno scenario definito, che può essere la camera di un giovane e ricco ragazzo che studia come si suona il flauto oppure la campagna, sfondo naturale per eccellenza di Brescia, anticipando quella pittura di realtà e di povertà che Giacomo Ceruti inventerà due secoli dopo.

Giovanni Girolamo Savoldo, pastore con flauto, 1525 ca.

Il terzo è Alessandro Bonvicino, conosciuto con il soprannome di Moretto. Lui è probabilmente quello più legato alla città nella quale visse e operò fino alla prematura morte. Le sue tele hanno nella maggioranza dei casi toni tendenti al grigio, non usa pigmenti vividi. Di conseguenza i soggetti ritratti, siano essi sacri, allegorici o persone reali, appaiono tristi e con una vaga malinconia. Questa sensazione è lampante nell’opera che ho menzionato prima, il ritratto di Fortunato Martinengo, il più suggestivo ritratto introspettivo della pittura bresciana. Fortunato era l’erede di una delle più ricche e nobili casate della città, ma non mostrò mai interesse nella gestione del patrimonio; si appassionò invece alle lettere e alla filosofia, alla cultura classica in tutta la sua vastità e profondità. Notiamo sul cappello che indossa un bigliettino con un’iscrizione in greco che significa “ahimè, troppo desidero”, forse in riferimento ad un amore impossibile, forse all’irrefrenabile sete di conoscenza, forse…

Alessandro Bonvicino, detto Moretto, ritratto di Fortunato Martinengo (?), 1540 ca.

Per concludere, nella speranza di avervi invogliato a visitare la mostra aperta fino al 16 febbraio, tornando a quanto dicevo circa l’atmosfera riflessiva e crucciata del dipinto e del soggetto ritratto, riporto un breve componimento poetico dello stesso Fortunato Martinengo che possiamo usare come chiave per decifrare l’espressione del nostro antenato:

Oimé com’iti son questi e quegli anni

senza che di lor fuga mi si’ accorto, 

oimé ch’or io conosco il lieve e corto

viver ch’altro non è ch’ombra e affanni.