Quasi due mesi fa l’Europa si risvegliava da un letargo di 70 anni, sorpresa che una guerra potesse ancora presentarsi alle sue porte, e cominciava ad interrogarsi sul proprio futuro. E la risposta più impulsiva data dai paesi Europei e Occidentali a questo scioccante evento è stato il tentativo di un allontanamento dalla dipendenza energetica dalla Russia: stiamo cercando di mettere quanta più distanza possibile tra noi e Mosca, anche e soprattutto militarmente, come sottolineano le voci di nuove richieste di ingresso nella NATO da parte dei paesi baltici.

A causa del conflitto in corso in Ucraina abbiamo assistito al frettoloso ritorno del tema delle armi all’interno del mondo dell’informazione; tuttavia, se guardiamo ai dati degli scorsi anni, ci accorgiamo che dal 1998 le spese belliche annue nel mondo sono in costante ascesa, che nel 2020 hanno raggiunto l’apice dal 1988 e che nel 2021, secondo dati ancora approssimativi, hanno sfondato quota 2000 miliardi di dollari. Questi numeri palesano l’andamento di un progressivo deterioramento nelle relazioni internazionali fra gli Stati e, soprattutto negli ultimi anni, una nuova divisione bipolare: da una parte l’esportazione della cosiddetta democrazia “Occidentale”, aspetto culturale che lega strettamente Unione Europea e Stati Uniti, mentre dall’altra la centralità degli “affari” commerciali, simbolo della recente e continua ascesa del mondo Orientale.

Da una parte una concezione moderna concentrata sui diritti dell’individuo e sulla civilizzazione dei popoli, mentre dall’altra un interesse focalizzato sulla crescita economica del proprio Paese.

E in questo quadro l’Europa è rimasta ferma, immobile, divisa al suo interno fra molteplici visioni e spaccature. Certo, negli investimenti militari troviamo Germania e Francia nella top ten, e l’Italia dal canto suo è undicesima, ma allora perché si parla oggi del bisogno di un esercito comune europeo? In molti hanno notato la sostanziale inutilità strategica dell’Europa: è un’Europa che non fa sentire la propria voce, che, a dirla tutta, non ha una propria voce. Ci si è resi conto che la NATO è un’alleanza fondata sul volere e sugli interessi americani e che quindi non è in funzione dell’Europa ma può addirittura recare danno all’Europa stessa, come ad esempio è accaduto in Afghanistan, dopo la ritirata USA. Inoltre, un esercito comune europeo comporta anche costi e investimenti comuni: in Europa vi sono 27 Paesi e 27 piani strategici e militari diversi, con una diversificazione di macchinari bellici notevole. Secondo una stima del Parlamento Europeo si potrebbero risparmiare fino a 22 miliardi di euro con un’unificazione delle strategie e, sempre secondo le fonti ufficiali, in media ogni Stato dissipa il 46% delle proprie spese militari sia per addestramento di un numero consistente di soldati sia per nuove ricerche tecnologiche.

Il problema ora è rappresentato dal fatto che non tutti sono d’accordo sulla creazione di un ulteriore esercito e che ci sono dubbi sul ruolo di predominio che avrebbero a loro volta alcuni tra i paesi Europei, Francia in primis.

Oltre ad un esercito comune europeo, o come condizione ad esso, servirebbe un’alleanza politica tra i Paesi più solida e credibile, perché sta di fatto che, con una corsa al riarmo oppure no, oggi l’Europa è sola ed in declino, sia demografico che politico, commerciale e strategico. Le crisi in Libia, dove Erdogan, Putin e l’Egitto di Al Sisi si stanno spartendo il controllo del Paese, in Siria, dove resiste il regime di Assad, in Afghanistan, come già detto, e recentemente in Ucraina, con i tentativi per una risoluzione del conflitto più concreti e incisivi fatti da Erdogan e Q 2 G Bennet, mentre le missioni e le telefonate di Macron su tutti sono sembrate inconcludenti, lo hanno rimarcato ancor di più.

In questo contesto di rinnovamento degli equilibri mondiali sta assumendo sempre più importanza la Cina. Se infatti dal punto di vista militare sembra ben lontana da aggressioni e prove di forza, fetta dopo fetta, paese dopo paese, sta trasferendo risorse di notevole spessore in Africa. Basti pensare che l’unica base militare cinese, situata fuori dal proprio territorio, si trova nello stretto di Bal El-Mandeb, tra Yemen e Gibuti, dove passa il 20% delle merci mondiali; oppure che gli investimenti cinesi in Africa (in paesi come Algeria, Angola, Nigeria, Zambia, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Camerun, Somalia e Gibuti) sono pari a 143 miliardi di dollari annui.

Sembra che solo in questi giorni in Europa si stia riscoprendo l’importanza di una politica estera comune e di una visione comune sul mondo che ci circonda.

Abbiamo sempre creduto che i riflettori fossero accesi su di noi, che noi fossimo i protagonisti indiscussi dello spettacolo terrestre; ebbene abbiamo capito che non è così, che forze più grandi si muovevano e si muovono negli spazi lasciati dal nostro appagamento.

In tutte le scuole si studiano le varie fasi di crisi e rinascita dell’Impero Romano; non dovrebbe essere difficile allora notare tutti gli elementi che ci identificano come continente in crisi. In quale modo invertire la rotta?

Ripartire dai giovani, dalla gente comune, da noi.

Riappropriarci di una cultura politica e di un senso di appartenenza al nostro mondo, quello Occidentale, quello democratico, quello che conosciamo; misurarsi con il cambiamento dell’ordine internazionale, analizzandone le cause e le conseguenze sulla nostra quotidianità.

Se non vogliamo rimpiangere un passato glorioso, se non vogliamo finire sotto l’ombra di uno stivale straniero, dobbiamo edificare un futuro solido, fin dal presente.

Nicola Santacatterina